Legislazione

Gli adeguamenti degli Statuti degli Ordini Cavallereschi della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie alla luce dei principi del diritto comune europeo

Redazione

di Michele Vietti - Professore e Avvocato

Con decreto Reale del 12/5/2016 Carlo di Borbone delle Due Sicilie, Duca di Castro, Capo della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie, Gran Maestro degli Ordini Dinastici ha così deciso:

Con atto “motu proprio e magistrale autorità” dell’8/12/2018 il Duca di Castro ha confermato l’approvazione e ha promulgato i nuovi Statuti degli Ordini Dinastici della Real Casa - entrati in vigore il 1/1/2019 - in cui ha istituito gradi dell’Ordine riservati alle donne che non erano previsti negli Statuti previgenti[1].

L’“Atto di Roma” del maggio 2016 è stato emanato considerando che:

La riforma degli Statuti del dicembre 2018 è stata ispirata alla “necessità, essendo trascorsi sedici anni, di adattar[li] ai tempi d’oggi e alle rinnovate circostanze”.
Questi adeguamenti si inscrivano nella cornice del “diritto comune europeo”.
Con l’espressione “diritto europeo” si è soliti designare non solo il diritto dell’Unione Europea, ma una rete di ordinamenti nata da forme di cooperazione fra gli Stati, che ha seguito lo sviluppo dei processi di integrazione sovranazionale in Europa dalla seconda metà del XX° secolo.
In questo complesso itinerario di formazione di un “diritto comune europeo”, si possono individuare almeno tre fasi.
La prima, aperta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 e dai trattati istitutivi delle comunità europee, è stata caratterizzata dalla prevalenza del cosiddetto approccio internazionalistico offerto dal diritto dei trattati e dal diritto delle organizzazioni internazionali.
La seconda, sviluppatasi all’indomani del Trattato di Maastricht, è stata caratterizzata dal rafforzamento dell’integrazione comunitaria.
Le riforme incrementali dei Trattati hanno determinato graduali e lineari sviluppi “prefederali” in un quadro di multilevel constitutionalism. Questo approccio “costituzionalistico” allo studio dell’ordinamento europeo è apparso negli ultimi anni, se non recessivo, sicuramente più problematico.
La crisi economica globale ha reso più stringenti per gli Stati i vincoli di bilancio imposti dalla governance europea e ha ridato forza all’originario paradigma intergovernativo, con ricadute complessive non solo contraddittorie, ma contrastanti con le prospettive di un compiuto federalismo sovranazionale.
In questa cornice, ha trovato spazio crescente un terzo approccio alla comprensione dell’ordinamento europeo: quello che investe il campo dei diritti fondamentali.
Esso si pone come luogo di confluenza di culture e tradizioni giuridiche storicamente differenti e di confronto tra le Corti europee.
Si delinea pertanto in Europa un “diritto comune” dei diritti fondamentali, segnato dall’esigenza di preservare l’unità e il particolarismo dell’esperienza giuridica europea.
Questo diritto mette in comune solo le grandi opzioni di principio che stanno sullo sfondo dei diritti nazionali e va identificato nei suoi caratteri di diritto “aperto” e “flessibile”, inseparabile dal carattere pluralistico dell’identità costituzionale europea.
È in atto una transizione dalla supremazia della Costituzione, autentico pilastro fondativo della dottrina costituzionale del Novecento, ad un assetto di “costituzioni parziali” tra loro raccordate non sul piano di un ordine gerarchico precostituito, ma su quello della armonizzazione dei rispettivi livelli di contenuto.
In questa cornice, quello dei diritti fondamentali è stato il terreno privilegiato di processi di scambio e di recezioni incrociate, che hanno assicurato in modo dinamico l’equilibrio fra la formazione di un “diritto costituzionale comune” e la preservazione di un profilo identitario plurale.
Come è noto, un tentativo solenne di costituzionalizzazione formale a livello europeo è già stato fatto e si è risolto in un fallimento a causa dei referendum che si sono opposti alla ratifica del Trattato-Costituzione.
Dalle ceneri del Trattato-Costituzione è sorto il Trattato di Lisbona che, sebbene eviti di fare riferimento a un processo di costituzionalizzazione, nei fatti esercita una potestà costitutiva (al punto di farlo ritenere da qualcuno un trattato quasi costituzionale).
La questione dell’esistenza di un ordinamento costituzionale europeo è lontana dall’essere risolta: alcuni ritengono che questa esistenza non può essere vista come un progetto, ma come un processo, cioè come un’entità vivente, che si adatta alle esigenze contingenti, siano esse di natura giuridica, istituzionale o persino politica.
Poiché l’ordinamento costituzionale europeo non è soltanto costituito da norme codificate, mi pare sia più corretto parlare dell’esistenza di un’identità costituzionale piuttosto che volere individuare nei Trattati le vestigia di una Costituzione.
Ma dai Trattati questa nozione prende forza ed ispirazione: dunque è a partire da essi che si può definire il contenuto dell’identità costituzionale europea.

 

Un contributo fondamentale alla formazione di questa identità costituzionale è dato dal principio di parità tra le donne e gli uomini.
Prima dell’avvento dei Trattati comunitari, a livello internazionale i primi interventi hanno riguardato il “diritto antidiscriminatorio”.
La tutela contro la discriminazione per tutti gli individui costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10/12/1948, che ha ispirato l’adozione di numerose convenzioni tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna del 18/12/1979, i Patti delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali e sui diritti civili e politici del 16/12/1966, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4/11/1950.
Il principio di parità tra donne e uomini ha poi trovato una prima consacrazione a livello comunitario nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea del 1957, anche se veniva circoscritto all’aspetto retributivo[2].
Con l’istituzione della cittadinanza dell’Unione Europea da parte del Trattato di Maastricht del 1992 la prospettiva è cambiata: si è attribuita all’Unione Europea una nuova dimensione rivolta al progresso sociale e al miglioramento delle condizioni non solo di lavoro, ma di vita[3].
Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha incluso tra i compiti della Comunità quello di promuovere la parità tra uomini e donne (art. 2) in una dimensione trasversale, applicabile a tutte le politiche comunitarie (art. 3 par. 2)[4].
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) del 7/12/2000, oltre a ribadire il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso (art. 21), ha consacrato la parità tra uomini e donne come diritto fondamentale[5].
L’ultima riforma dei Trattati, quella di Lisbona del 2009, ha attribuito valore giuridico vincolante alla Carta di Nizza[6] e ha riaffermato il principio di uguaglianza tra uomini e donne inserendolo tra i valori e gli obiettivi dell’Unione Europea[7].
L’impegno a realizzare “un'Unione che promuova la parità tra donne e uomini e diritti e pari opportunità per tutti” è stato da ultimo ribadito nella Dichiarazione di Roma del 25/3/2017 in occasione del sessantesimo anniversario dei Trattati istitutivi della CEE.

 

Sulla base delle disposizioni di principio contenute nella normativa primaria l’Unione ha intrapreso numerose azioni nel settore della parità uomo-donna, seguendo il duplice approccio delle azioni specifiche per l’emancipazione femminile e dell’inserimento della tematica della parità nelle politiche comunitarie.
Pur proseguendo lungo la strada del rafforzamento normativo, attraverso l’approvazione di direttive e l’adozione di azioni positive, l’Unione Europea ha riconosciuto il c.d. gender mainstreaming che ha trovato riconoscimento formale nel Trattato di Amsterdam.
Si tratta di una strategia politica che consiste nella sistematica realizzazione delle pari opportunità in tutte le politiche comunitarie: è un concetto rivoluzionario perché, oltre a portare la dimensione di genere in tutte le politiche comunitarie, richiede l’adozione di una prospettiva di genere da parte di tutti gli attori del processo politico[8].

Le Istituzioni europee hanno svolto un ruolo significativo nel sostenere le politiche per le pari opportunità.
Tra le azioni più recenti ricordo, tra le altre:

1. il Quadro finanziario pluriennale (2014-2020) e il programma “Diritti, uguaglianza, cittadinanza che finanzia progetti volti a raggiungere la parità di genere e porre fine alla violenza contro le donne[9];

2. la creazione, nel dicembre 2006, su iniziativa del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE)[10];

3. l’adozione il 5/3/2010 da parte della Commissione della Carta per le donne nell’ottica di migliorare la promozione dell’uguaglianza tra donne e uomini in Europa e in tutto il mondo;

4. la pubblicazione nel dicembre 2015 da parte della Commissione dell’impegno strategico per l’uguaglianza di genere 2016-2019[11];

5. l’adozione il 26/10/2015 da parte del Consiglio del Piano d’azione sulla parità di genere 2016-2020[12];

6. la firma il 13/6/2017 da parte della commissaria per la Giustizia, i consumatori e la parità di genere a nome dell’Unione Europea della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul)[13].

 

In ambito europeo la tutela del principio di uguaglianza e quindi del divieto di ogni tipo di discriminazione sono dunque considerati fondamentali e ci si preoccupa di garantirne l’efficacia in sede politica.
Ciò è dovuto alla diffusa consapevolezza che per sperare di avere risultati significativi in materia di discriminazioni, così come in materia di diritti fondamentali in genere, non basta la via giudiziaria che è per sua natura volta a colpire le “patologie”[14].
In questo, come in tutti gli altri ambiti del vivere civile, si deve puntare a diffondere prassi degli Stati e comportamenti dei singoli “fisiologicamente” corretti e rispettosi del principio di uguaglianza.
Per fare questo, è necessaria l’adozione di scelte di “lungo periodo” e strategiche che i Giudici - internazionali, comunitari e nazionali - non sono chiamati istituzionalmente a compiere.È però indubbio che anche le Corti abbiano svolto un ruolo importantissimo nella promozione della parità tra uomini e donne.
Le sentenze più significative delle Corti europee hanno riconosciuto:

Il Consiglio di Stato, nel parere n. 1869/1981, ha sostenuto che il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio:

L’Ordine, se lo si osserva dal punto di vista strettamente giuridico, non è espressione di un ordinamento statuale sovrano e non era pertanto formalmente tenuto ad adeguarsi alla normativa di matrice europea relativa alla parità di trattamento uomo-donna.
L’originaria esclusione delle donne dall’Ordine era motivata - oltre che da ragioni storiche che relegavano la figura femminile ai margini della vita pubblica - dal fatto che esso è nato come Ordine Equestre votato alla guerra, tradizionalmente riservata agli uomini[19].
Dagli archivi dell’Ordine risulta che la nomina della prima Dama[20] risale al 24/2/1886 e che sono state nominate[21] circa 90 dame tra il 1894 e il 1931[22].
A partire dagli Statuti del 1965 (e sino a quelli del 2002) è stato previsto che il numero di dame nei gradi loro attribuiti è illimitato[23].
La piena parificazione, per numero e gradi, tra Cavalieri e Dame è avvenuta solo con gli Statuti approvati nel dicembre 2018, che per la prima volta hanno riconosciuto alle Dame la dignità di Balì[24].

Questa parificazione è perfettamente in linea con le finalità dell’Ordine in quanto:

La modifica degli Statuti non ha pertanto rappresentato un astratto adeguamento dell’Ordine a un principio teorico, ma un intervento concreto, che si inscrive nell’attuale approccio seguito a livello di politica globale sul tema della parità di genere.

 

In conclusione.
La sostanza del principio fondamentale di parità tra le donne e gli uomini si ritrova nelle tradizioni giuridiche comuni agli Stati europei, nel diritto internazionale e in quello di matrice comunitaria.
La lotta contro la discriminazione di genere ha giustificato l’introduzione di strumenti giuridici, legislativi e giurisprudenziali che hanno arricchito l’identità costituzionale dell’Unione Europea prendendo spunto dall’identità costituzionale degli Stati membri, ma a volte differenziandosene.
La parità fra i sessi è un’istanza del nostro tempo talmente forte e vitale da essere stata accolta e recepita nell’identità costituzionale dell’Europa attraverso il veicolo normativo e da “aver preso vita” nella giurisprudenza delle Corti.
Va dato atto alla sensibilità del Gran Maestro di aver saputo interpretare i “segni dei tempi”, adeguando spontaneamente le regole successorie della propria Casata e quelle degli Ordini dinastici che ne dipendono all’evoluzione del costume e del diritto contemporaneo, consentendo così a queste benemerite istituzioni di non rimanere confinate nel passato ma di svolgere a pieno titolo il proprio ruolo di animazione socio –culturale nel presente, contribuendo all’evoluzione di una modernità proficuamente innervata nella tradizione.Le modifiche degli Statuti del dicembre ‘18 in senso paritario, consentono all’Ordine di adattarsi come dice il motu proprio che li ha promulgati“ai tempi d’oggi ed alle rinnovate circostanze”, senza perdere la “particolare attenzione allo spirito e alla sostanza di quelli più antichi”.

                                                                                                                          * * *

Note

[1] i) nella Categoria di Giustizia dell’Ordine, i gradi di:

ii) nella Categoria di Grazia dell’Ordine, i gradi di:

[2] L’art. 119 prevedeva che “Ciascuno Stato membro assicura (…) l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. (…) La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: a) che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura, b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale”. La previsione della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici era volta a soddisfare l’esigenza di eliminare le distorsioni della concorrenza in un mercato che ambiva ad essere integrato.

[3] L’accento è stato posto sulla persona in quanto tale, a prescindere dall’esercizio di un’attività economica: ciò ha provocato una progressiva emancipazione del principio di non discriminazione dalla sfera economica per collocarsi in quella dei diritti soggettivi.

[4] Il Trattato ha inoltre previsto una base giuridica per l’adozione, da parte delle Istituzioni comunitarie, di provvedimenti volti a contrastare le discriminazioni fondate sul sesso e di misure d’incentivazione destinate ad appoggiare le azioni degli Stati membri per la realizzazione degli obiettivi di lotta alla discriminazione (art. 119).

[5] L’art. 23 della Carta di Nizza prevede che la parità “deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”.

[6] Con le relative conseguenze sulla sindacabilità degli atti delle Istituzioni europee e degli Stati membri.

[7] L’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea prevede che “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
L’art. 3, par. 3, del Trattato sull’Unione Europea prevede che “L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore”.
L’art. 157, par. 4, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea prevede che: “Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”.

[8] Le principali tappe che hanno contribuito alla istituzionalizzazione del gender mainstreaming nell’ordinamento giuridico UE sono, in sintesi:

[9] Regolamento UE n. 1381/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17/12/2013. Per il 2019 alla linea di bilancio 33 02 02 (Promuovere la non discriminazione e la parità) sono stati assegnati € 37.262.000,00 in stanziamenti d’impegno (importo superiore rispetto a quello stanziato nel quadriennio 2015-2018). Alla linea di bilancio 33 02 01 (Garantire la tutela dei diritti e l’empowerment dei cittadini) sono stati assegnati € 27.164.000,00 per contribuire, tra gli altri obiettivi, a contrastare ogni forma di violenza contro le donne.

[10] L’EIGE, con sede a Vilnius, ha l’obiettivo generale di sostenere e rafforzare la promozione della parità di genere anche attraverso l’assistenza tecnica alle Istituzioni UE mediante la raccolta, l’analisi e la diffusione di dati e strumenti metodologici. Nel 2018 l’EIGE ha presieduto la rete delle agenzie per la giustizia e gli affari interni, esaminando l’impatto della digitalizzazione nelle rispettive aree di attività delle agenzie, con particolare attenzione ai diversi modi in cui la tecnologia influisce sulle donne e sugli uomini di giovane età.

[11] incentrato su cinque settori prioritari: 1) aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e pari indipendenza economica; 2) riduzione del divario di genere in materia di retribuzioni, salari e pensioni e, di conseguenza, lotta contro la povertà delle donne; 3) promozione della parità tra donne e uomini nel processo decisionale; 4) lotta contro la violenza di genere e protezione e sostegno a favore delle vittime; 5) promozione della parità di genere e dei diritti delle donne in tutto il mondo;

[12] Il Piano é basato sul documento congiunto dei servizi della Commissione e del Servizio europeo per l'azione esterna (SEAE) sul tema “Parità di genere ed emancipazione femminile: trasformare la vita delle donne e delle ragazze attraverso le relazioni esterne dell'UE (2016-2020)”. Il nuovo Piano d'azione sottolinea “la necessità di realizzare pienamente il godimento, pieno e paritario, di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali da parte delle donne e delle ragazze e il conseguimento della loro emancipazione e della parità di genere”.

[13] Il processo di adesione richiede ora l'adozione di decisioni del Consiglio relative alla conclusione della Convenzione e l’approvazione del Parlamento europeo. La Convenzione è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne a livello a livello internazionale. Essa stabilisce un quadro completo di misure giuridiche e strategiche per prevenire le violenze, sostenere le vittime e punire i responsabili. Dal novembre 2017 reca la firma di tutti gli Stati membri dell'UE e nel marzo 2018 è stata ratificata da 17 Stati membri, tra cui l’Italia.

[14] Che sono peraltro in continuo aumento, come dimostra il costante accrescersi del contenzioso in questa materia, davanti alle Corti di Strasburgo e Lussemburgo.

[15] Con la Sentenza Defrenne II dell’/8/4/1976 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto l'effetto diretto del principio della parità della retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, stabilendo che questo principio riguarda non solo le pubbliche autorità, ma vale del pari per tutte le convenzioni che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato.

[16] Con la sentenza Bilka del 13/5/1986 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che una misura volta a escludere i dipendenti a orario ridotto da un regime di pensioni aziendali costituisce una “discriminazione indiretta” ed è pertanto in contrasto con l'ex articolo 119 del trattato CEE qualora colpisca un numero molto più elevato di donne che di uomini, a meno che non si possa provare che l’esclusione è basata su fattori obiettivamente giustificati ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso; con la sentenza Barber del 17/5/1990 la Corte ha riconosciuto che tutte le forme di pensione professionale costituiscono un elemento della retribuzione a norma dell'ex articolo 119, e che pertanto a esse si applica il principio della parità di trattamento, stabilendo che i lavoratori di sesso maschile devono poter accedere ai diritti di pensione o di pensione di reversibilità alla stessa età delle colleghe di sesso femminile; cona la sentenza Marshall dell'11/11/1997 Corte ha dichiarato che una norma nazionale che imponga di dare la precedenza nella promozione ai candidati di sesso femminile (“discriminazione positiva”) nei settori in cui la presenza maschile è maggiore rispetto a quella femminile non è vietata dalla legislazione comunitaria, a condizione che questo vantaggio non venga applicato automaticamente e che i candidati di sesso maschile siano comunque presi in considerazione, senza essere esclusi a priori dalla possibilità di presentare domanda.

[17] Con la sentenza Test-Achats del 1/3/2011 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato l'invalidità dell'articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 2004/113/CE del Consiglio, stabilendo che esso è contrario al principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura. Pertanto, ai fini della determinazione dei premi e delle prestazioni assicurative, agli uomini e alle donne deve essere applicato lo stesso sistema di calcolo attuariale.

[18] Con la sentenza Cristaldi 14/6/2018 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha tra l’altro evidenziato che “il progresso verso la parità dei sessi è un obiettivo importante per gli Stati membri del Consiglio d’Europa e che solo considerazioni molto forti possono portare a ritenere compatibile con la Convenzione una disparità di trattamento a questo riguardo (…). In particolare, dei riferimenti alle tradizioni, dei presupposti di ordine generale o delle attitudini sociali maggioritarie in atto in un determinato paese non bastano a giustificare una disparità di trattamento basata sul sesso”.

[19] Il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio trae le sue origini dall’imperatore Costantino I il Grande il quale fondò un Ordine di Cavalleria sotto il nome di Milizia Costantiniana, composto dai cinquanta migliori cavalieri, affidando loro la protezione del Labaro Imperiale. I Cavalieri costantiniani parteciparono alla prima crociata del 1099, a quella del 1208 contro gli Albigesi e alla guerra contro i Turchi del 1684. Con la bolla del 1719 Papa Clemente XI si felicitò con i Cavalieri costantiniani per avere condotto più di duemila fanti in Dalmazia contro le armate turche. Il cosiddetto Reggimento costantiniano si comportò eroicamente nel corso di una lunga e vittoriosa guerra combattuta dalla Repubblica di Venezia contro i Turchi, con l’aiuto del Duca Francesco Farnese, XLIII Gran Maestro dell’Ordine (Alessio Cassinelli Lavezzo, “Il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, Phasar Edizioni, 2005).

[20] Donna Clotilde Carafa Cantelmo Stuart, nominata Dama di Giustizia da Francesco II (Gran Maestro dal 22/5/1859 al 23/12/1894).

[21] Nei gradi di Dama di Gran Croce di Giustizia, Dama di Gran Croce di Grazia, Dama di Giustizia, Dama di Grazia, Dama di Onore (Classe istituita con Decreto Magistrale del 24/3/1916), Dama di Merito e Dama di Ufficio.

[22] Le nomine sono state effettuate dal Principe Alfonso Maria di Borbone delle Due Sicilie (Gran Maestro dal 28/12/1894 al 27/12/1931).

[23] L’articolo II degli Statuti del 1965 prevedeva che: “Il numero dei Balì Cavalieri di Gran Croce di Giustizia non può essere superiore a cinquanta, in memoria degli eletti personaggi prescelti dal grande Costantino per la Custodia del Labaro e ciascuno di essi ha il titolo di uno degli antichi Baliaggi o Priorati, e il trattamento di Eccellenza e di Don. Il numero dei Cavalieri di Gran Croce, di Grazia e di Merito, è limitato a cento complessivamente. È, invece, illimitato il numero dei Cavalieri degli altri gradi e quello delle Dame”.
L’articolo II degli Statuti del 1982 e di quelli del 2002 prevedeva che: “Il numero dei Balì Cavalieri di Gran Croce di Giustizia non può essere superiore a cinquanta, in memoria dei personaggi prescelti dall’Imperatore Costantino per la Custodia del Labaro; ciascuno di essi ha il trattamento di Eccellenza e di Don. I Reali Principi di Borbone delle Due Sicilie, i Sovrani, i Principi di altre Case Reali e gli Eminentissimi Cardinali di Santa Romana Chiesa, non sono compresi nel numero di cinquanta Balì Cavalieri di Gran Croce di Giustizia. Il numero dei Cavalieri di Gran Croce di Giustizia, e di Gran Croce con Placca d’oro è limitato a venticinque per ogni categoria, quello dei Cavalieri di Gran Croce di Grazia e di Merito, è limitato a cinquanta per ogni categoria. È invece illimitato il numero dei Cavalieri degli altri gradi e quello delle Dame”.

[24] L’articolo II degli Statuti vigenti prevede che: “Il numero dei Balì Cavalieri e Dame di Gran Croce di Giustizia decorati del Collare non può essere superiore a cinquanta, in memoria dei personaggi prescelti dall’Imperatore Costantino per la Custodia del Labaro; ciascuno di essi ha il trattamento di Eccellenza e di Don. I Reali Principi e le Principesse di altre Case Reali e gli Eminentissimi Cardinali di Santa Romana Chiesa, i Capi di Stato e di Governo non sono compresi nel numero dei cinquanta Balì Cavalieri e Dame di Gran Croce di Giustizia decorati del Collare. Il numero dei Cavalieri e Dame di Gran Croce di Giustizia è limitato a settantacinque, quello dei Cavalieri e Dame di Gran Croce di Merito è limitato a centocinquanta. È, invece, illimitato il numero dei Cavalieri e Dame degli altri Gradi”.

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