Così la Cassazione con sentenza n. 30234/17, depositata il 15 dicembre.
Il fatto. La Corte d’Appello di Salerno respingeva l’appello avverso la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda di un avvocato volta ad ottenere l’affermazione del diritto al riscatto degli anni di laurea attraverso la compensazione del debito con la maggiore somma incamerata dalla Cassa Forense a seguito del ricongiungimento della contribuzione versata all’INPS per un precedente rapporto di lavoro.
La Corte territoriale, a sostegno della sua decisione, rilevava l’insussistenza di una situazione creditoria in capo all’avvocato tale da costituire presupposto per la compensazione. Avverso tale sentenza l’avvocato ha proposto ricorso per cassazione.
Nessun presupposto legale per la compensazione. Sostiene il ricorrente che erroneamente la Corte ha motivato la decisione presupponendo un diritto al rimborso della contribuzione incamerata, in quanto il medesimo chiedeva solo un diverso utilizzo della contribuzione.
La Cassazione ha osservato che il ricorrente non si duole delle corretta interpretazione della domanda, ma ravvisa un mero difetto nella motivazione, differenza tra richiesta di restituzione e compensazione, che non coglie la ragione specifica dalla decisione dei Giudici di merito, la quale, invece, si basa sull’insussistenza dei presupposti legali della compensazione (art. 1241 c.c.), mancando, in capo all’avvocato, il credito da opporre in compensazione per l’estinzione del debito.
Contribuzione eccedente. Secondo la Corte insussistenza del credito nasce dal fatto che «se non esiste un diritto ad ottenere la restituzione dei contribuiti eccedenti non può esistere neanche un diritto che consenta di disporre, comunque, delle somme corrispondenti a tale contribuzione eccedente».
A tal fine la sentenza impugnata, infatti, richiama le motivazione delle giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 439/2005) e i contenuti della legge n. 45/1990 (Norme per la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti) relativi al carattere generale dell’istituto della ricognizione nella previdenza dei professionisti.
In ragione di ciò, secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha correttamente utilizzato questi argomenti per dimostrare che la fattispecie non costituiva un indebito arricchimento «poiché i versamenti effettuati non erano indebiti ma contribuzioni dovute».
Arricchimento senza causa. Infine la Corte ha ribadito l’impossibilità per il soggetto iscritto alla Cassa di previdenza forense di utilizzare i contributi versati in eccedenza non comporta alcun diritto alla loro restituzione nemmeno a titolo di arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c., in conseguenza dell’inesistenza di un principio generale di restituzione dei contributi legittimamente versati, «in ragione dei fini solidaristici perseguiti dalle casse o degli istituti di previdenza e assistenza».
Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso e condanna l’avvocato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.