Il Consiglio Nazionale Forense ha parzialmente accolto il ricorso presentato da un avvocato che era stato condannato dal CDD di Catania per violazione degli artt. 9 comma 1, 12 e 27 comma 7 C.d.f. In particolare, all’avvocato veniva imputato di non aver esercitato l’attività professionale con lealtà, correttezza e competenza perché non aveva partecipato alle udienze di primo e secondo grado in difesa del suo assistito, non curandosi di delegare un altro professionista e costringendo il cliente ad avvalersi della difesa d’ufficio. Inoltre, il CDD aveva ritenuto responsabile il difensore per non aver presentato, dopo aver ricevuto la notifica dell’ordine di esecuzione della sentenza, la richiesta di misura alternativa alla detenzione.
L’avvocato ricorrente, invece, con il primo motivo ha denunciato davanti al CNF la decisione del CDD in relazione alla violazione dell’art 9 C.d.f. ritenendo che, in realtà, per ogni udienza alla quale non aveva potuto partecipare si era premurato di nominare i sostituti processuali, i quali non avevano potuto qualificarsi come tali a causa della vigenza del precedente ordinamento professionale che non prevedeva la delega orale. La designazione come difensore di ufficio, infatti, era stata effettuata ai sensi dell’art. 97 comma 4 c.p.p. e non già dell’art. 97 comma 1 c.p.p., circostanza che, secondo il procuratore, provava che lo stesso Tribunale non aveva ritenuto integrata la condizione di cui all’art. 105 c.p.p. ovvero l’abbandono di difesa o il rifiuto della difesa di ufficio.
Con il secondo motivo, invece, l’avvocato, in riferimento all’omessa presentazione di istanza di misura alternativa alla detenzione, ha affermato di non avervi potuto provvedere in quanto il cliente non lo aveva più contattato, circostanza che a sua volta gli aveva impedito di intervenire perché l’art. 677 c.p.p. richiede, a pena di inammissibilità, che l’istanza ex art. 656 c.p.p sia corredata da elezione di domicilio.
Il Consiglio Nazionale Forense, esprimendosi sul ricorso in esame, ha però ritenuto il primo motivo infondato, spiegando che proprio la designazione del difensore di ufficio, avvenuta ai sensi dell’art. 97 comma 4 c.p.p., risulti circostanza idonea a provare documentalmente che l’avvocato non si era in realtà preoccupato di delegare validamente un collega della difesa nelle forme di cui all’art. 102 c.p.p.
La seconda doglianza, invece, è stata considerata fondata, reputando il CNF errata l’affermazione dell’organismo disciplinare nella parte in cui sosteneva che il difensore, in quanto destinatario della notificazione dell’ordine di esecuzione e contestuale sospensione ex art. 656 comma 3 c.p.p. potesse indicare, nell’istanza alla sospensione della esecuzione, il luogo della domiciliazione presso lo studio professionale.
Infatti, Il Consiglio ha affermato che «l’elezione di domicilio non è atto del difensore ma della parte, esprimendo la personale volontà di ricevere le notificazioni del procedimento presso un determinato luogo, scelto appunto dal dichiarante e non dal difensore. Pertanto, in assenza di un contatto che non vi è prova la parte assistita abbia cercato con il professionista, l’avvocato, in assenza di elezione di domicilio non avrebbe potuto validamente presentare istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione, essendo la elezione di domicilio, ai sensi dell’art. 677 c.p.p., condizione di ammissibilità della domanda».
Per questi motivi, il CNF ha accolto il secondo motivo di impugnazione, rideterminando la sanzione irrogata all’avvocato.