Giurisprudenza

Sulla nullità della sentenza del GOP per violazione della sua competenza ratione valori

Redazione

di Michele Vietti - Professore e Avvocato

Premessa
Con la sentenza n. 1456 depositata in data 2 novembre 2020, la Corte d’Appello di L’Aquila, rigettando integralmente il gravame proposto, ha affrontato:
i) il tema della validità della sentenza pronunciata da un G.O.P. al di sopra dei limiti di valore di sua competenza;
ii) i profili dell’omessa precisazione delle conclusioni;
iii) le modalità e gli effetti della rinuncia alla domanda effettuata da una delle parti e l’estensione soggettiva delle pretese dell’attore al terzo chiamato.

Il fatto
La questione ha avuto origine dalla domanda di risoluzione per inadempimento di un contratto di compravendita immobiliare, promossa dalla venditrice dello stabile unitamente alla richiesta di condanna al risarcimento dei danni nei confronti della società acquirente.
Quest’ultima, costituitasi, ha chiesto ed ottenuto di chiamare in causa la propria Banca, per essere tenuta indenne dalle conseguenze sfavorevoli del giudizio promosso nei suoi confronti, assumendo l'inadempimento dell’istituto di credito nell'erogazione del mutuo contratto per far fronte all'acquisto.
A seguito dell’interruzione del processo per l'avvenuta dichiarazione di fallimento dell’acquirente, l’attrice ha riassunto la causa insistendo sulla domanda di risarcimento danni avanzata nei confronti della società fallita.
Costituitosi in giudizio, il Fallimento ha eccepito in via preliminare l'improcedibilità della domanda risarcitoria ai sensi dell'art. 52 L.F., senza reiterare le domande svolte dalla società in bonis contro la Banca ed, anzi, esplicitamente dichiarando che la pretesa precedentemente avanzata “segue, semplicemente, l’improcedibilità (o non proseguibilità) delle domande reiteratamente proposte dall’attrice [omissis] nei confronti del fallimento [omissis]”.
Con la sentenza impugnata il Giudice di prime cure ha integralmente rigettato le pretese attoree, dichiarando l'improcedibilità della domanda di risarcimento proposta contro il Fallimento e dando atto che la domanda di garanzia avanzata nei confronti della Banca dalla società in bonis non era stata coltivata dal Fallimento.
La soccombente ha proposto appello, sulla scorta dei seguenti motivi:
- nullità della sentenza per essere stata decisa dal giudice onorario, nonostante il giudizio avesse valore superiore a quello di sua competenza, e per avere il medesimo fissato l'udienza di discussione ex art. 281 sexies c.p.c. omettendo di far precisare le conclusioni;
- violazione dell'art. 112 e 306 c.p.c. per non avere il primo giudice deciso sulla domanda avanzata dalla società fallita nei confronti della terza chiamata, ritenendola non coltivata;
- violazione degli artt. 303 e 112 c.p.c. e 24 e 52 LF per avere ritenuto improcedibili anche le domande avanzate dalla società fallita nei confronti della Banca.

La pronuncia della sentenza da parte del G.O.P.
Nella sentenza in commento, la Corte d’Appello, allineandosi alla giurisprudenza maggioritaria, ha affermato che la pronuncia della decisione da parte del giudice onorario in materia sottratta, nella ripartizione tabellare, alla sua competenza non determina la nullità della sentenza, ma costituisce una mera irregolarità (cfr. Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2016, n.19660).
La statuizione è assolutamente condivisibile.
Infatti, l'art. 43 bis del R.D. n. 12 del 1941, che legittima l'assegnazione del lavoro giudiziario al giudice onorario, pone quale presupposto l'"impedimento o la mancanza dei giudici ordinari", che risulta integrato anche dalla generale insufficienza dell’organico dell’Ufficio Giudiziario, essendo attribuita alla magistratura onoraria una funzione suppletiva e costituendo il suo impiego una misura fondamentale per una celere ed efficiente amministrazione della giustizia.
Fermo il principio tendenziale per cui al giudice onorario vanno attribuiti compiti meramente preparatori e strumentali all'esercizio della funzione giurisdizionale, che rimane riservato al magistrato professionale (studio, ricerca di dottrina, predisposizioni schemi di provvedimenti, assistenza anche in camera di consiglio), al G.O.P. possono essere delegati, con riferimento a ciascun procedimento civile, poteri giurisdizionali istruttori e decisori concernenti singoli atti (adozione di provvedimenti "semplici e ripetitivi", provvedimenti anticipatori di condanna in seguito a non contestazione del credito, assunzione di testimoni, attività conciliativa delle parti, liquidazione dei compensi agli ausiliari) persino inerenti a procedimenti riservati al tribunale in composizione collegiale "purchè non di particolare complessità" (art. 10, comma 11, d.lgs. n. 116 del 2017), ed in alcuni casi può allo stesso essere delegata anche la pronuncia di provvedimenti definitori.
I giudici onorari possono decidere, quindi, ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, con la conseguenza che la nullità della sentenza, per vizio relativo alla costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio, ossia non investita della funzione esercitata, oppure quando il G.O.P. abbia adottato uno dei provvedimenti riservati per legge ai soli giudici togati (cautelari e possessori).
4. La precisazione delle conclusioni
L’appellante assumeva, in secondo luogo, la nullità della sentenza per non avere il primo Giudice fatto precisare le conclusioni prima di pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., essendosi invece limitato a lasciar illustrare alle parti le rispettive tesi “con sintesi peraltro non proprio esaustiva delle pur rilevanti argomentazioni sviluppate oralmente all’udienza”.
La Corte, rigettando il gravame, ha ritenuto la ricostruzione dei fatti documentalmente smentita.
Infatti, il Giudice Istruttore, nel fissare udienza di discussione ex art. 281 sexies c.p.c., aveva contestualmente concesso termine per note, regolarmente depositate da tutte le parti e dallo stesso verbale dell’ultima udienza risulta che parte attrice si è “riporta[ta] alle argomentazioni, conclusioni e deduzioni di cui alle note conclusive in atti depositate”.
Pertanto, la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto sufficienti le attività svolte in udienza ai fini della esecuzione dell’invito previsto dall’art. 281 sexies c.p.c..
In proposito, è opportuno rilevare come, anche se l’appellante non avesse espressamente rassegnato le proprie conclusioni nelle note conclusive, la circostanza sarebbe stata irrilevante.
È infatti pacifico in giurisprudenza che se il difensore non si presenta all’udienza fissata per la precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non le precisi o le precisi in modo generico, opera la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate, ivi comprese le istanze istruttorie che la parte abbia reiterato dopo che ne sia stata rigettata l'ammissione (cfr. Cass. civ., sez. III, 20/11/2020, n.26523), e ciò persino se in comparsa conclusionale non siano tutte riproposte, non potendosi desumere dalla suddetta comparsa - per la sua funzione meramente illustrativa - alcuna volontà di rinuncia o abbandono delle conclusioni non riproposte (cfr. Cass. civ., sez. III, 12/01/2006, n.409).
Inoltre, l’argomento in esame merita un’ultima considerazione: anche se le modalità dell’omissione fossero dipese dal giudice di prime cure e fossero state talmente gravi da integrare nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, tale vizio, non essendo ricompreso tra le ragioni di nullità di cui all’art. 354 c.p.c. non  avrebbe comportato, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, la rimessione in primo grado, ma solo la conseguenza che la Corte d’Appello sarebbe stata investita della decisione di merito.

La rinuncia alla domanda e l’estensione soggettiva
In conclusione, la sentenza in commento ha ritenuto infondati anche gli ulteriori motivi di gravame, dei quali ha effettuato esame congiunto.
L’atto d’appello assumeva che, poiché il Fallimento si era limitato ad eccepire l'improcedibilità della domanda originariamente avanzata da parte attrice nei confronti della fallita in bonis, erroneamente il primo giudice ne aveva ricavato la rinuncia implicita alle domande avanzate da quest'ultima nei confronti della terza chiamata, ritenendo inoltre che l'interpretazione svolta dal primo giudice si ponesse in contrasto con il principio per cui “le domande proposte in giudizio possono essere abbandonate con valenza di effettiva abdicazione alla tutela giurisdizionale solo attraverso una formale dichiarazione di rinuncia agli atti del giudizio a termini dell’art. 306 cpc e come tale accettata dalle altre parti”.
La Corte d’Appello ha ritenuto radicalmente infondata la tesi, sulla scorta di due elementi, entrambi condivisibili:
i) costituisce principio di diritto univoco e consolidato quello per cui “la rinuncia alla domanda, a differenza della rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l'adozione di forme particolari, non necessita di accettazione della controparte ed estingue l'azione” (da ultimo, Cass. civ., sez. III, 19 dicembre 2019, n. 33761);  si è inoltre ripetutamente affermato in giurisprudenza che “nel caso di mancata riproduzione, nelle conclusioni della comparsa di riassunzione, di una richiesta formulata nell'atto introduttivo, il giudice di merito deve valutare alla stregua dell'intero contesto degli atti processuali se detta omissione concreti o meno una vera e propria rinuncia, ossia un inequivocabile abbandono della richiesta non riprodotta” (Cass. civ., sez. lavoro, 3 luglio 2014, n. 15214; Cass. civ., sez. III, 19 dicembre 2019, n. 33761 cit.);
ii) il tenore delle deduzioni difensive del Fallimento (che, come già riportato, aveva esplicitamente dichiarato come la pretesa avanzata precedentemente “segue, semplicemente, l’improcedibilità (o non proseguibilità) delle domande reiteratamente proposte dall’attrice [omissis] nei confronti del fallimento [omissis]”), ha dimostrato l’univoca volontà di non coltivare le domande originariamente proposte nei confronti della Banca.
Proprio in relazione a tale ultimo aspetto, la Corte ha ritenuto non condivisibile la tesi, proposta dall'appellante, per cui l'estensione soggettiva della domanda proposta  alla terza chiamata imponeva comunque l'esame di tutte le domande spiegate dalle parti: “premesso infatti che risulta pacifico e comunque documentato in atti che la società appellante è estranea al contratto di mutuo stipulato tra [la società fallita in bonis] e la banca chiamata in causa e quindi che la stessa è terza rispetto alle domande svolte dalla società in bonis, sostanzialmente la prospettazione difensiva dell'appellante tende ad introdurre nel presente giudizio (peraltro in mancanza di una espressa domanda) una azione di surroga nei diritti della fallita contro la terza chiamata, in palese violazione della par condicio fallimentare”.
Nonostante la Corte abbia escluso la possibilità di un’estensione “automatica” delle domande dell’attrice-appellante alla Banca terza chiamata, per le peculiarità del caso concreto, caratterizzato dalla presenza di una procedura concorsuale, tale effetto sarebbe stato comunque precluso dalla natura della garanzia invocata dalla società poi fallita.
Il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto non trova applicazione quando il chiamante, senza postulare l’esclusione della propria responsabilità (ed anzi presupponendola), faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come causa petendi.
Infatti, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta, ma anzi coesiste, con quella del convenuto, è rimessa in via esclusiva all'attore la scelta - ove consentita dalla situazione giuridica dedotta nell'atto di chiamata in causa - di proporre o meno nei confronti del terzo chiamato (quale coobbligato solidale) una nuova autonoma domanda di condanna, che deve però essere formulata in giudizio nell'osservanza delle preclusioni determinate dalle fasi processuali (cfr., da ultimo e con enfasi grafica aggiunta, Cass. civ., sez. III, 10/6/2020, n. 11103).
Nel caso in esame, non vi è stata alcuna estensione soggettiva della domanda: la garanzia dedotta dalla convenuta in bonis nei confronti dell’istituto di credito traeva origine da un rapporto diverso da quello oggetto della domanda originaria (precludendo, pertanto, ogni automatismo) e l’attrice-appellante aveva rivolto tardivamente l’autonoma pretesa nei confronti della Banca, non avendola formulata né durante l’udienza ex art. 183 c.p.c., né nel ricorso per la riassunzione, ma solo nel corso della prima udienza successiva al fallimento della convenuta.