Sospensione cautelare per l’avvocato: chi e come si dimostra lo strepitus fori?
di Fabio Valerini, Avvocato cassazionista
Nel caso di specie la norma fondamentale è rappresentata dal primo comma dell’articolo 60 della legge professionale per cui è prevista, inter alia, che “la sospensione cautelare dall'esercizio della professione o dal tirocinio può essere deliberata dal consiglio distrettuale di disciplina competente per il procedimento, previa audizione, nei seguenti casi: applicazione di misura cautelare detentiva o interdittiva irrogata in sede penale e non impugnata o confermata in sede di riesame o di appello”.
Il caso. Ed infatti, era stata emessa la misura cautelare degli arresti domiciliari (poi attenuata in una misura interdittiva) nei confronti di un avvocato che, in base all’ordinanza del GIP, era stato “l’ideatore del sistema, il promotore ed il consulente per la sua realizzazione, il promotore ed organizzatore delle procedure societarie ed aziendali finalizzate alla realizzazione di profitti illeciti, definito il fornitore di pacchetti completi [c.d. chiavi in mano, ndr] per la sottrazione fraudolenta di beni delle società create dagli associati, per l’inadempimento delle obbligazioni tributarie, per il mancato pagamento di crediti privati, per la distrazione fraudolenta di beni di società dolosamente condotte al dissesto, oltre alla fornitura dei servizi connessi alla organizzazione dei cd pacchetti completi, compreso il reperimento di prestanomi”.
A seguito dell’avvio del procedimento penale e dell’adozione della misura cautelare, il Consiglio distrettuale di disciplina adotta la misura cautelare della sospensione dalla professione per sei mesi.
Il motivo di ricorso. Senonché, secondo il ricorrente, il Consiglio di Disciplina avrebbe errato nell’applicazione di quella norma perché avrebbe irrogato una “sospensione cautelare maggiormente afflittiva rispetto alla misura applicata in sede di indagini preliminari: a fronte infatti di una interdizione parziale dall’esercizio della professione (limitatamente alle materie del diritto di impresa e fallimentare), il C.D.D. ha applicato la sospensione cautelare dall’esercizio della professione senza limitazioni di materia”.
Non occorre l’attualità della misura. Senonché, il CNF il primo punto di fatto decisivo è che il GIP aveva originariamente emesso nei confronti dell’avvocato incolpato la misura cautelare detentiva degli arresti domiciliari, poi attenuata in quella della misura interdittiva parziale.
Fatto decisivo perché, secondo la giurisprudenza del CNF già formata nel vigore dell’art. 43 della previgente legge professionale “la revoca della misura cautelare giudiziaria non fa venir meno automaticamente i presupposti della sospensione cautelare applicata dal C.d.O. avendo i due provvedimenti diversa natura e diverse finalità cautelari”.
E ciò anche perché le due misure cautelari, e cioè quella penale e quella disciplinare, hanno presupposti e finalità differente: mentre la prima mira a scongiurare il rischio di inquinamento delle prove, il pericolo di reiterazione del reato ed il pericolo di fuga, “la sospensione cautelare disciplinare si giustifica in vista della salvaguardia dell’Ordine Forense, al fine di preservarne la funzione sociale dalle menomazioni di prestigio che possono conseguire alla notizia di assoggettamento dell’Avvocato a procedimento penale per fatti gravi e comportamenti costituenti reato”.
Ma vi è anche un secondo punto altrettanto decisivo per il rigetto del ricorso. Ed infatti, il CNF precisa che l’art. 60 consente l’applicazione della misura cautelare disciplinare quando è stata disposta, in sede penale, una misura detentiva o interdittiva.
Ne deriva l’affermazione del principio di diritto secondo cui “l’art. 60 della l. n. 247/2012 parla di misura interdittiva, senza alcun riferimento alle modalità di esecuzione della stessa, totale o parziale, limitata ad alcuni settori della professione forense”.
Il controllo del CNF in sede di impugnazione. Secondo il ricorrente, poi, la decisione del Consiglio di disciplina non era adeguatamente motivata in ordine ai presupposti e alla proporzionalità della misura.
Senonchè, il CNF ribadisce che allo stesso è precluso ogni esame concernente il merito della vicenda e l’opportunità della misura cautelare.
Ed infatti, secondo i precedenti “il potere cautelare esercitato dal CDD ai fini dell’adozione, modifica e revoca del provvedimento di sospensione cautelare del professionista è discrezionale e non sindacabile, essendo solo al CDD affidata dall’ordinamento la valutazione della lesione al decoro e alla dignità della professione e quella dell’opportunità del provvedimento stesso nonché di eventuali fatti sopravvenuti, mentre l’esame del C.N.F. è limitato al controllo di legittimità, restando precluso ogni giudizio rispetto all’opportunità dell’adozione della misura sospensiva”.
Lo strepitus fori… Da ultimo, merita un cenno la questione della persistente rilevanza, o no, del c.d. strepitus fori ai fini dell’adozione della misura cautelare disciplinare.
Ebbene, secondo il CNF lo strepitus fori “costituisce tuttora presupposto della nuova sospensione cautelare, la quale pertanto non consegue automaticamente o di diritto al solo verificarsi delle fattispecie tipiche e tassative di sua ammissibilità (artt. 60 l. n. 247/2012 e 32 Reg. CNF n. 2/2014), ma è comunque rimessa al potere-dovere del CDD di valutare in concreto l’eventuale clamore suscitato dalle imputazioni penali, in una dimensione oggettiva di rilevante esteriorizzazione e non solo nello stretto ambiente professionale”.
… e la sua “prova” Ma soprattutto deve prestarsi particolare attenzione alla parte della decisione su come possa essere dimostrato lo strepitus fori da parte del consiglio di disciplina ovvero contestato dall’incolpato.
In altri e più chiari termini: a chi spetta l’onere della prova e su quali circostanze dovrà vertere la prova?
Secondo il CNF il Consiglio di disciplina ha riassuntivamente (e, invero, “sbrigativamente” si legge nella motivazione) affermato che vi sarebbe stato un “clamore mediatico creato dalla vicenda ed il conseguente impatto sull’opinione pubblica”.
Quel clamore, però, da un lato quella prova non necessariamente deve emergere per via documentale (e, cioè, “facendola semplicisticamente coincidere con la diffusione delle notizie giornalistiche o con il numero delle pubblicazioni”) ma, dall’altro lato, “in assenza di altri elementi concludenti, neppure può ricavarsi in via meramente presuntiva, ritenendo di per sè sufficiente la semplice pronuncia di un provvedimento giudiziale”.
Ed allora per il CNF – non avendo fornito la prova di ricerche senz’esito sui siti di informazione cittadini della notizia che lo riguardava – si può giungere alla conclusione, certamente in via presuntiva, che “ad una non conoscenza dell’accaduto, o ad una difficile conoscibilità dello stesso nell’ambito del Tribunale e della città, ostano inequivocabilmente il numero delle persone coinvolte, le dimensioni economiche della vicenda ed il ruolo rivestito dell’avvocato”.
Peraltro, è bene ricordare che, nel vigore della previgente disposizione, le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 3184 del 2015 avevano avuto modo di precisare che quel presupposto deve esistere nel momento dell’adozione della misura (c.d. attualità) non potendo ammettersi che il clamore possa essere soltanto ipotizzato, ad esempio , perché pende un processo penale.