Legittima la sospensione dell’avvocato che accetta il mandato in cambio di prestazioni sessuali
Il giudizio traeva origine dall’esposto con cui i coniugi contestavano all’avvocato, oltre alla mancata fatturazione del compenso, la spedizione di due messaggi telefonici inequivoci, consistenti in dichiarazione di attivazione all’impegno professionale a fronte di prestazioni sessuali. All’esito del procedimento attivato dal COA di Pescara, all’avvocato veniva irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per due mesi.
Proposto ricorso al CNF, il Collegio lo rigetta e afferma che «i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza debbono essere rispettati dall’avvocato sempre, nell’esercizio ma anche al di fuori dell’attività professionale. Conseguentemente, viola i principi cardine della deontologia l’avvocato che subordini l’effettività e l’efficacia del proprio impegno professionale alla prestazione sessuale in suo favore del cliente, in quanto è di estrema gravità la confusione o la sovrapposizione dell’atto sessuale alla prestazione professionale».
In particolare, prosegue il Consiglio, tali principi «costituiscono doveri generali e concetti “faro”, a cui si ispira ogni regola deontologica, giacché essi rappresentano le necessarie premesse per l’agire degli avvocati, anche al di fuori dell’esercizio della professione, cioè pure nell’ambito della vita privata, in quanto mirano a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nella figura dell’avvocato, quale persona leale e corretta in ogni aspetto della propria attività, quindi non solo nei confronti della parte assistita, ma anche e soprattutto verso l’ordinamento, generale dello Stato e particolare della professione, nonché verso la società e i terzi in genere».
Ed infatti, «deve ritenersi disciplinarmente responsabile l’avvocato per le condotte che, pur non riguardando strictu sensu l’esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro e, riflettendosi negativamente sull’attività professionale, compromettono l’immagine dell’avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto».
Alla luce di tali osservazioni, il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto congrua la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale a carico dell’avvocato per la durata di 2 mesi.